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Autore:
Mario Grasso
Editore:
Lunarionuovo
Anno:1982
Condizioni: BUONE CONDIZIONI
Categoria: SAGGISTICA, STORIA, LETTERATURA, NARRATIVA
ID titolo:48494000
"I guerrieri di Riace" è in vendita da mercoledì 10 gennaio 2018 alle 10:17 in provincia di Catania
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Note su "I guerrieri di Riace": I guerrieri di Riace
di Mario Grasso
Editore: Lunarionuovo
Anno: 1982 | numero di pagine: 212 | formato: tascabile
Lingua: italiano
Descrizione del libro Gennaio 1982. viene pubblicato come Quaderno di Lunarionuovo un poema di cinquemila versi in 22 canti intitolato “I Guerrieri di Riace” (pagg. 212). Il poeta immagina di interrogare i famosi Bronzi ellenici scoperti nel mare di Riace. E questi narrano tutta la loro storia (Una fantastica invenzione totale) dalla fusione del bronzo alle peregrinazioni per mare allorché trafugati da pirati che cercano di venderli finiscono con l’essere sbalzati dalla Grecia alla Sicilia e da qui fino all’Egitto prima di finire in fondo al mare. Nel canto V a pag. 33 della prima edizione, troviamo una preghiera in siciliano che il poeta fa pronunciare alla donna del Tiranno mentre da alle fiamme lo scheletro di una vittima del marito: “Non fari scattiòli / suffumica cuntentu / sbrisciu e stinghiusu schelitru / t’arricogghi / lu spiritu ti vugghi / scinni cchiù ô funnu / acchiana acchiana sbampa / azzicca ‘n celu / a rrampa / e dda ti stampa / la to’ spogghia unn’è / ossa abbrusciati vénili a pigghiari”.
Da Il Mattino (Napoli), 27 febbraio 1982: “(…) I Guerrieri di Riace, un’opera extra-ordinaria nel panorama della poesia italiana che sembra essere condannata da tanto alla vibrazione, alla folgorazione, alla poetica del frammento o della frantumazione, condanna alla quale quasi nessuno sfugge. Qui invece Mario Grasso ha ambito al poema. La vera qualità della poesia è data infatti dalla lotta della memoria contro l’oblio. In questa lotta Mario Grasso, poeta siciliano, risulta vincente. Conoscitore nel profondo degli scrittori e dei lirici greci si è fatto divorare dalle loro favole, dai loro miti, dai loro miracoli, dalle loro mille e una odissea (…) La potenza viva del poema di Mario Grasso è il suo rinnovato umanesimo. Un poema, allora, contro corrente, nel senso che conduce a una strenua lotta contro l’annullamento della grande arte, del grande realismo e contro la principale decadenza della nostra società storica, a ridurre l’espressività della poesia a mera afasia. Lungi dalle superstizioni dell’afasia, nel poema di Mario Grasso appare invece l’idea-forza espressa dalle parole, l’importanza del soprastrato, ricco di termini arcaici e nuovi, luminosi, mai inquinati da deformazioni folcloriche o da false etnie, arte, quindi, sommamente aristocratica (…)”. Luigi Compagnone
Da Il Piccolo (Trieste), 5 maggio 1982: “(…) Del poema epico, infatti, qui c’è anzitutto la dimensione del viaggio, quell’indifferenza alla geografia accanto alla familiarità per ogni geografia, quell’essere sempre consentanei al paesaggio, consumato che sia in un lunghissimo giro d’anni o appena intravvisto. Con altre connotazioni dell’epica: le tempeste, i mostri più o meno antropomorfici, le profezie, le visioni del futuro, le favole intrammezzate (si veda in questo I Guerrieri di Riace, la favola di Ilena), soprattutto l’accettazione che abbassa il meraviglioso a normale e innalza la norma a straordinarietà. Non meno fitti, e ovviamente appena elencabili, i problemi stilistici. Intanto si può dire che la figura sintattica dominante è l’endiade, l’esprimersi mediante due termini coordinati. E come l’altra ricorrente figura dell’iperbato, cioè dell’inversione rispetto alla norma sintattica, è da Grasso strumento manovrato con consapevole sagacia, al punto giusto, per giuste sollecitazioni. Ma lo sforzo stilistico maggiore ci sembra operato in sede lessicale. Certo alle spalle Grasso ha i suoi precedenti: il D’Arrigo di Horcynus Orca, direi per fare almeno un nome (,,,)”. Elio Bartolini
Da La Gazzetta del Mezzogiorno (Bari), 23 aprile 1982: “(…) Grasso, insomma, riattraversa i principali miti archetipi dell’umanità e le tappe fondamentali delle letterature che li hanno rivissuti. Ma affronta l’operazione in maniera in qualche modo smagata, da contemporaneo: l’approccio è anche quello di favola. Il poeta tesse il suo racconto come un incanto e insieme ogni tanto è complice col lettore nel lacerarlo. È l’unica via per affrontare una storia che assomma ne I Guerrieri di Riace, in sé tutte le altre storie, la storia del fruire stesso della vita: “Cosa diceva il mare in tanti secoli? / Certo più che la reggia di Santarro. / Il terremoto, il tempo della peste / lì ci smangiava il vento / qui ci rodeva il sale.” (…)”. Franca Rossi
Da Letture critiche di AA. VV. su I Guerrieri di Riace di Mario Grasso, a cura di L. Trenta Musso,ed. Sciascia, CL 1984: “(…) Parlerei di funzione orotopedica del Potere, intendendo con essa l’alleanza tra Dominio e Sapere, a cominciare da Platone dove si esplicita la figura del filosofo-re. Non c’è dubbio comunque che la metafisica del Politico implichi un contegno farmaceutico finalizzato a produrre una sicurezza inconcussa (Heidegger), per cui non c’è il Potere senza una promessa di guarigione, senza il miraggio del Sommo Bene. Vorrei aggiungere che ogni forma di Dominio è sempre implicitamente totalitaria, in quanto Ratio che pretende di ricomporre il conflitto, il tragico che è nel reale.
Di questa presenza leviatanica ci dà testimonianza l’opera di Mario Grasso, soprattutto nel capitolo XII: il Faraone che si mostra come puro sguardo, come panopitkon. Solo che ovunque regna la follia del giorno, direbbe Blachot, di ogni discorso dominante, intesa a esorcizzare quello che Foucault definisce “ogni frammento di notte”, il Sacerdote-sapiente che traccia geroglifici (simboli, valori) e costruisce false certezze, fino al riferimento alla techne, forma specifica della Ratio occidentale: “anzi stavolta i soliti artigiani / giunsero edotti / a incidere sui tenoni / i nuovi nostri nomi”. In pochi efficacissimi tratti Grasso sintetizza l’immagine del Leviatano, della Kultur e del Dominio; di contro si erge l’Altro, la differenza, questi Guerrieri senza patria, stranieri cone il sofista, come il meteco. Testimoni di verità, mettono in crisi l’opacità granitica della storia dove il Discorso si fa Dominio. Il falso e fraudolento Sapere li rifiuta: “ci respinse il sapiente”, perché il loro è un sapere senza potenza, debole e tragico; la loro sapienza non fonda sistemi e rende impercorribile l’utopia del Bene. Essi vedono quanto è interdetto vedere: “obiettivi invisibili, lontani”, “castelli di luce”, le Martuffe. Come i poeti, dunque, vedono l’invisibile (la poesia, ha scritto Viviani, è la vista dell’invisibile), come i profeti urlano la verità del disastro.
L’immagine finale del Canto: “d’un corteo di Martuffe impennacchiate”, dove si esplicita il riferimento alla furia nazista, è ancora più significativa se la si pensa determinata da un eccesso della visione, da uno sguardo rovesciato sul raccapriccio. Perché questo vedere nella notte del mondo, questo vedere la notte incessante nel lucore di un abbaglio, è una delle funzioni del poetico. Proprio perché “tra le chiurme / nessuno vide / nessuno udì”, la poesia è testimonianza, linguaggio dell’esigenza ed esigenza del dire, nonostante le croci uncinate, nonostante l’orrore che anzi solo il poetico svela.” Roberto Carifi
Da Letture critiche di AA. VV. su I Guerrieri di Riace di Mario Grasso, a cura di L. Trenta Musso, ed. Sciascia, CL 1984: “(…) Ma se classicamente tragica è la sorte della fanciulla di questo Canto XIV, tragicamente moderna è la condizione vissuta dai Bronzi. Essi vivono il dramma del non capire, prima, del non giustificare, poi, e infine dell’impotenza cui li condanna la loro essenza di staute, di cose (così la fine del Canto XIII), di Numi solo per artistica finzione, non per onnipotenza attiva.
Si segua, ad esempio, l’incertezza delle ipotesi, l’ansioso sforzo di capire, ripetuto con un insinuante crescendo: “niente ecatombi, / forse perché poveri / o perché altro l’uso”, vv. 8-10; “… nei dieci anni, / poco più, forse tredici…”, vv. 53-54; “Il mio sospetto formulò una tesi”, v. 67; “non seppi mai quale fu il nome suo”, v. 77. Quando capiscono, i Bronzi lamentano la loro impotenza, vorrebbero rifiutare il sacrificio umano loro tributato, patiscono e vanamente protestano la loro condizione di Numi: “come altro che imposto (il sacrificio) / noi potendo l’avremmo dato un segno / per rifiutare vittime e preghiere”.
Sospeso tra due mondi, quello cruento del sacrificio antico incarnato dalla sventurata e purissima fanciulla, e quello eticamente moderno e razionale dei Bronzi a cui esecrando pare il sacrificio, il dettato oscilla tra due estremi stilistici: uno, delirante e caotico, si affida soprattutto all’anacoluto sintattico, all’omissione di legami verbali, al repentino mutare dei soggetti, all’irruzione del metro ineguale; l’altro inclina alla limpida scansione del fraseggio, nobilitato da cauti iperbati, mirante all’armonica distensione del dominante endecasillabo e del subalterno settenario, normalmente sciolti da rima secondo la poetica dello stile alto di ispirazione neoclassica, col raro contrappunto di qualche rima interna o di un’assonanza in posizione esposta.” Pietro Gibellini
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